ERMENEUTICA DELLA FORMA SIMBOLICA

Questo è uno scritto inviatomi da un mio amico, mi è sembrato interessante e ho deciso di sottoporvelo. Si tratta, sicuramente, di un punto di vista diverso dal solito. Buona lettura.

Introduzione
Durante un periodo discretamente lungo, ho potuto ascoltare molte idee di molte persone, notando come, ognuno di essi, esprima il proprio pensiero sorretto dal contesto culturale dal quale proviene, o dal quale si è formato. In particolar modo, sono stato molto attratto dalla, si può dire, querelle relativa all’azione del simbolo. L’evidenza delle emozioni umane di fronte al mondo simbolico ci dà ragione per non dubitare dell’azione del simbolo tuttavia, quali sono, se ci sono, le condizioni necessarie per le quali l’azione
del simbolo si esplica? Su questo tenterò, se non di rispondere, perlomeno a dare spunti di riflessione. Tuttavia è necessario evitare problemi terminologiche così che la mia esposizione comincerà nel discernere ciò che può essere detto simbolo ciò che invece è segno.

SIMBOLO E SEGNO
La questione della distinzione tra un simbolo e un segno non è di secondaria importanza, ne è una distinzione puramente terminologica, ma abbraccia il terreno del rapporto tra il simbolo, il segno, è l’essere umano che interpreta. Definisco qui, in maniera non ovviamente originale (ma neanche tanto scontata) il segno come ciò a cui si riferisce un significato arbitrario statico, per cui l’interpretante è posto al di fuori del circolo interpretativo. È abbastanza facile capire che se, davanti al semaforo rosso, ognuno di noi potesse compiere un minimo atto interpretativo, l’età pensionabile scenderebbe di molto. In questo caso la relazione tra il segno dell’interpretante è univoca, cioè abbraccia il segno è l’interpretante (qualche volta il vocabolario) verso il solo senso del significato. Definisco invece simbolo ciò che non ha un significato in sé, ma agisce da medium tra l’interpretante e ciò a cui il simbolo stesso rimanda. In questo caso la relazione non si può dire univoca, poiché vi è un’azione di rimando – l’azione del simbolo – che ha la forma, al posto di un vettore, quella di un circolo. Tuttavia neanche in questo caso l’arbitrio umano e così libero da spaziare l’interpretazione all’infinito. Per esempio, il simbolo della croce, per quanto possa avere I più svariati significati, è sempre, non solo interpretato, ma sentito all’interno di specifici contesti, per I quali, per esempio, non arriveremo mai ad associarlo ad una casa, o ad un aereo.

COME FUNZIONA IL SIMBOLO
Ora che abbiamo definito gli orizzonti semantici all’interno dei quali mi muoverò, posso passare il punto centrale, cioè l’azione del simbolo. All’interno del circolo ermeneutico, come relazione che si instaura tra interpretante, interpretato e verità, messo in evidenza l’azione di rimando, che testimonia dell’attività simbolica, come movimento di ritorno dell’interpretazione: il soggetto interpretante accresce se stesso con l’interpretazione, egli cambia e cambierà anche il suo modo di interpretare futuro. F. A. è stato molto attento su questo punto. Egli infatti sostiene che l’azione del simbolo sia indipendente e autonoma dall’azione dell’interpretante. Ovvero il simbolo agisce a prescindere dal fatto che il soggetto si costituisca parte del circolo ermeneutico: il simbolo sacro è sacro a prescindere dalle proprie personali convinzioni. A questo riguardo, tuttavia, bisogna sempre tener presente la distinzione semiologica fra type e token, che ci mostra come il contesto entro il quale si esplica l’interpretazione sia elemento costitutivo non rimovibile: il matrimonio è sacro, sia che siamo credenti oppure no, tuttavia un matrimonio di una scena cinematografica non avrà stesso contenuto sacrale. è molto chiaro vedere l’importanza del contesto durante I nostri lavori: alcuni di noi portano contesti esoterici che derivano dalle più svariate culture di provenienza. Quanto questi differenti contesti intuiscono sulla nostra capacità di capire il simbolo, o di essere in ascolto del suo rimando? Se è vero, come anch’io sono convinto, pur non essendo così ottimista, che il simbolo sia sempre in azione, credo anche che noi non siamo sempre in ascolto. Il contesto culturale, che ci farebbe decifrare il simbolo trattandolo dunque come un segno, si rivela in questo caso inutile se non dannoso. Cos’altro allora? Cosa può aiutarci a rimanere nel circolo tralasciando il contesto razionale (necessario tuttavia per la comunicabilità)? Rimane solo l’irrazionale: il sentimento. Forse sta in questo la più chiara differenza tra il simbolo e il segno. Il simbolo come prodotto umano ha in sé la rappresentazione semantica del sentimento in una sintassi razionale che ne permette la comunicabilità. Quando si scambiano le due, offrendoci al simbolo con il solo contesto razionale (le nostre conoscenze, le nostre convinzioni, in generale la nostra enciclopedia) lo si tratta da segno, si esce fuori dal circolo per ritornare alla dimensione dell’univocità, ci si chiude al rimando. Cosa possiamo fare? Propongo qui dunque di lasciarci andare al simbolo. Il lasciarsi andare esprime già in sé la dimensione irrazionale con cui, secondo me, ci si dovrebbe rapportare al simbolo primariamente, per far poi subentrare l’istanza razionale che ci consente di contestualizzare e comunicare il rimando. Fondamentalmente quello che sostengo è che un simbolo sia universale (di qui il suo lato formale), ma che abbia anche una dimensione personale (data dal fatto che è sempre un prodotto dell’uomo). Come si traduce tutto questo nei fatti? Davanti al simbolo si dovrebbe ascoltare I sentimenti che ci suscita: solo in questo modo si entra nel circolo come una persona individuale che, umilmente, si presta all’ascolto. Non è quindi un caso che parlo di ermeneutica del simbolo, richiamando l’azione dei dio Hermes. Messaggero degli dei, medium della verità è anche un dio capriccioso, per questo viene spesso associato all’opera del trickster. La verità che egli porta infatti non ha la forma dell’adequatio, ossia la forma del segno, la sicura e certa adesione della parola alla cosa, ma della aletheia, ossia della verità come rivelazione o svelamento, cioè del movimento infinito e impetuoso del circolo di rimandi semantici che permettono l’emancipazione della personalità. Chiariamo la teoria prendendo un simbolo ad esempio: il sole situato ad Oriente. Come segno esso rimanda al sole reale, la sua verità come adequatio è data dalla sua effettiva corrispondenza al sole reale che ci permette di riconoscerlo come “sole”; il movimento interpretativo – che ha più la forma di una traduzione – è unidirezionale, non si instaura alcun dialogo. Se invece ci lasciamo andare al simbolo del sole e lasciamo che ci parli, entreremo nel circolo ermeneutico e verremmo sommersi da esso all’interno di un vero e proprio dialogo. Il sole acquisterà così nuovi sensi e associazioni semantiche: il sole è luce, che rimanda alla vita, all’illuminazione, Illuminismo, conoscenza, espansione di coscienza, consapevolezza, etc. Ora, visto che il dialogo si instaura tra un individuo interpretante e il simbolo, dovremmo chiederci: in cosa il simbolo mi chiede di portare la luce? Cosa c’è, in me, ancora oscurato dalla notte? La luce della mia coscienza si sta alzando verso il mezzogiorno (sentimento di attrazione), o sta ritirandosi per far posto, di diritto, alle tenebre dell’inconscio (sentimento di repulsione)? E così via verso una dialettica potenzialmente infinita, che non ha la forma di una verità scienti?ca, ma, come il carattere di Hermes, di allusione e sorpresa sempre nuovi. In questo modo si esplica l’azione del simbolo, intesa quindi come processo di trasformazione dell’individuo interpretante tramite la dialettica simbolica. Ma se, tuttavia, all’interno del contesto simbolico, trattiamo il simbolo come segno – il sole è secondo tale dottrina questo, secondo tale altra è quest’altro – facciamo una violenza al simbolo, ci ritiriamo dal dialogo ponendoci non come soggetti individuali, con una vissuto personale e spirituale specifico, ma come soggetti trascendentali, staccati da noi stessi alla ricerca dell’oggettività, ossia dei traduttori di linguaggi.